Lingua madre e lingue nemiche

LINGUA MADRE E LINGUE NEMICHE

Silvia Audo Gianotti
Université de Grenoble

Nel 2004 la casa editrice svizzera Zoe pubblica L’Analphabète, racconto autobiografico che ripercorre in undici capitoli le immagini della memoria e del vissuto della scrittrice Agota Kristof. Nata nel 1935 a Csikvánd, paesino dell’Ungheria nord-occidentale dove trascorre un’infanzia felice, a quattro anni sa già
leggere correttamente e raccontare storie, fantastiche e paurose, che terrorizzano il fratellino Tila. Anche gli zigani che incontra nel villaggio fanno parte di questa dimensione immaginaria, extraterresti senza pianeta né patria che pronunciano suoni indecifrabili frutto di una lingua aliena. Ai suoi occhi il mondo ha l’aspetto della lingua materna, la lingua ungherese, capace di descrivere tutto ciò che la circonda mentre gli altri idiomi, che non hanno alcuna corrispondenza con essa, riproducono un universo irreale.

All’età di nove anni la famiglia si stabilisce in una città di frontiera dove un quarto della popolazione parla tedesco, idioma degli antichi dominatori austriaci e dei soldati che in quel momento invadono l’Ungheria. Agota si avvicina alla lingua seconda senza alcun entusiasmo né interesse con la collera di una giovane a cui si sta sottraendo l’identità. Poco tempo dopo l’Armata Rossa, salita al potere, mette in atto un “vrai sabotage intellectuel” (Kristof) sulla popolazione, esigendo il russo nelle scuole malgrado i professori non siano motivati ad insegnarlo né gli allievi ad apprenderlo. L’ungherese rappresenta il fattore di coesione sociale del popolo, imporre una lingua altra implica una trasformazione delle abitudini e del suo carattere sociolinguistico.

Disorientare la nazione, renderla muta, incapace di esprimersi perché possa essere docilmente governata, questo l’obbiettivo della sovietizzazione. Nei momenti di solitudine la scrittura diventa una compagna fedele che risveglia la sua anima assopita dal dominio comunista risolto a creare un “uomo nuovo”, rassegnato, ubbidiente e ridotto al non-pensiero.

Con la morte di Stalin e i primi segni del disgelo, nell’ottobre 1956 ha inizio una rivolta nelle vie di Budapest immediatamente repressa dalle truppe sovietiche. Numerosi ungheresi perdono la vita, altri, tra cui la Kristof, per non sottostare alla legge dell’occupante si rifugiano in Occidente. Un popolo senza futuro abbandona il paese dove ha vissuto troppo tempo confinato per scoprire il mondo occidentale e la libertà abolita dalla dittatura. Nel novembre di quello stesso anno con il marito e la loro neonata di quattro mesi attraversano la frontiera tra l’Ungheria e l’Austria fino a raggiungere la Svizzera. A vent’anni questo viaggio prende la forma di un’avventura come narrano i gemelli de Le Grand cahier (1986). Per l’autrice l’apprendimento del francese diventa la risposta ad un passato doloroso e la sfida alla sua libertà personale nonostante questo significhi ricreare la propria identità sottomettendola al sapere e alla lingua altrui. L’apertura sull’altro universo linguistico oltre a produrre una tensione tra identità reale e fittizia, scelta e imposta, mette in causa quello che va detto e taciuto nella creazione artistica privandola della spontaneità e dell’automatismo che le sono propri. Nei testi estraneità e ibridazione linguistica riflettono la sua condizione di espatriata. La semplicità di vocabolario e sintassi sono utili espedienti per evitare la soggettività e l’espressione dei sentimenti. Tutti gli artifici letterari vengono banditi come se di fronte alle sofferenze vissute solo il denudamento scritturale e il rifiuto di qualsiasi ridondanza stilistica fossero i più adeguati a riprodurre degli argomenti drammatici e crudelmente reali.

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