GLI EQUILIBRISMI DELLA RICERCA “…NEL VENTO, / DELL’ANGOLO PERFETTO”


(Zingonia Zingone, “L’EQUILIBRISTA DELL’OBLIO”
traduzione dell’autrice e di Pietro Federico)
Eleonora Mozziconi
Davide Toffoli

“L’EQUILIBRISTA DELL’OBLIO” è una pubblicazione bilingue del 2011, della Raffaelli Editore di Rimini. E’ una sorta di “dialettica bipolare” quella che lascia scaturire la poesia di Zingonia Zingone, autrice e animatrice culturale cresciuta tra Italia e Costa Rica, Dire senza nascondere, senza celarsi dietro eleganti e altezzose maschere di parole difficili o desuete, evidenziando la profonda colloquialità di Ernesto Cardenal o la conoscenza impura e deflagrante di Pablo Neruda. Nella preziosa prefazione di Alicia Partnoy si rimanda alla riflessione lucida e personalissima di Claribel Alegría. Gitana per il mondo, affranta dal dolore degli oppressi, è capace di ricreare il mito intrecciando in maniera semplice e naturalissima il quotidiano e l’eterno; una corda tesa sulla quale camminare con prezioso equilibrismo, non rassegnandosi mai a precipitare nel burrone dell’oblio. La raccolta si apre con una citazione apocalittica (Ap 12,1-2), in un riferimento sacro al “femminile” più alto, seguita immediatamente da un’altra di Paul Beauchamp: “…La letteratura apocalittica nasce / per aiutare a sopportare l’insopportabile…”. Con queste chiavi di
lettura ci addentriamo nel viaggio poetico per incontrare subito un piede nudo “…dalle dita perfette / nella sua zucca, lontano nell’alba”, sospeso in una dimensione quasi onirica, tra futuro e ricordi. La dimensione ha sempre i contorni del sogno e spesso risulta fuorviante (“Pasar por el marco de la puerta / sin saber si has entrado / o estás saliendo”); anche quando, in fondo al corridoio, appare il corpo misterioso di un uomo, camminatore immobile, sul suo tapis roulant: “es un cuerpo que camina / sobre una banda rotatoria / y tú, una fantasía, / poco más de lo que fuiste / más de lo que serías”. Si cerca l’apice dell’equilibrio (“La bailarina de Degas”), ma la caduta è inattesa e sempre dietro l’angolo (“Pierde el contrapeso del olvido / y precipita / y se quiebra”). “Camina la cuerda en equilibrio…”, “Camina de punto a punto…”, “Vira la cuerda en el viento…”, “Sigue la cuerda el camino…” oltre che come incipit decisamente efficaci, suonano piuttosto come dichiarazioni d’intenti. E’ una poesia di contrasti: il più evidente resta quello tra tangibile e intangibile (“No me queda más / que el tacto de lo certero / el sofá tres almohadas / mientras el alma / como el humo de un puro / asciende lenta”; oppure “Veo las nubes pasar / bajo el avión // así pasan / tupidos / mis temores / mis heridas / hombro a hombro”). Si parte per cercare di sopportare il dolore, per trovare un Dio in cui credere, per altruismo, per colmare un vuoto, ma in Zingonia si parte sempre e solo, in maniera costruttiva, verso il buio. Oltre questa partenza, il tema dello specchio e della mutevolezza, all’interno di esso, del volto al passare del tempo (“Es incómodo / mirarse en el espejo”; “y escrutarse es / escarbar la tumba / del viejo rostro”). “La culpa es una cárcel / que se erige en torno al alma / ladrillo sobre ladrillo” e la fuga da essa non può essere il volo, che rischierebbe di trascinare con sé ogni soffocante mattone; sembrerebbe piuttosto la fede, magari verso la Vergine Santissima, inginocchiandosi “con la entrega / del desasosiego / con la esperanza / de quien ha tocado el fondo”. La vita è una magia incoerente, da vivere in prima persona, ascoltandosi, magari rompendo gli schemi “con la Fortaleza de los mártires” y “el desapego de los locos”. La duplicità emerge, a tratti, anche nel doppio registro, che porta ad accostare colte citazioni in Latino a ludici riferimenti a Buggs Bunny. La Fede è un percorso da affrontare, spogliandosi di tutto il superfluo per trovarsi in modo reale (“Hoy me robaron un anillo. / Hoy me quité un peso de encima”); un percorso intriso di sana quotidianità (“Una mínima iglesia de adobe y campana / sumergida en las colinas / de olivos y cielos tersos. / Te ofrezco, Señor, renunciar / a los excesos de esta vida / moderna”). Ma la costante è il rapporto dialettico tra finito e infinito (“Tan sólo mirame / y dime que un riachuelo / une tu lago con el mar”), dove è auspicabile la visionarietà dei bambini per rifuggire una deleteria e asfissiante razionalità (“Es asunto de niños / eso de tener visión. / No es asunto mío / eso de fingirme sabia”). E’ salda l’attenzione alle periferie cosmopolite popolate di reietti o di randagi, ma anche alla tradizione che può apparire come gabbia, cornice o letto di fiume da seguire. Ma il dualismo più alto è quello del nome, Zingonia, dove troviamo inoltre la scissione tra città, mai compiuta, rifugio degli emarginati e bersaglio del più becero fondamentalismo dei razzisti, e poetessa, progetto invece perfettamente portato a compimento e capace di trovare “nel vento / l’angolo perfetto”: “Me llamo Zingonia / como el nuevo Bronx / no uso seudónimo”. La seconda sezione, “Nunca seremos hormigas”, si apre nel segno del biblico Qoeleth, con il già detto e pur sempre da ridire di turoldiana memoria. Ogni progetto sociale dell’uomo sembrerebbe destinato, inevitabilmente, a fallire (“Nunca seremos hormigas / cabizbaja muchedumbre / en elevación del bien común”), soprattutto per l’inesauribile cinismo dei potenti capace solo di alimentare l’odio dei fondamentalisti che “revientan las jaulas / en el nombre de Dios / porque ya no aguantan / al Emperador optimista // invadiendo el universo / $anguinariamente $onriente”. In un mondo fatto di spettatori vigliacchi ed inerti (“Nosostros seremos Creonte. Nosotros, los ciegos / habitantes del pueblo global / seguimos como Ismene / caminando cobardemente por la historia / refugiados en la red, ojos agachados / como si todo y nada estuviera
aconteciendo”). L’ultima sezione, “La ciudad invisible”, è una costante riflessione sulle nomadi profondità dell’anima (“Tiene algo de nómada / mi residencia fija”), dove non sembra esistere una pianta per orientarsi (“Mi errático deambular /…/ Teje / itinerarios antojadizos / por las sendas / de la esperanza y del olvido”), né tantomeno tracce possibili da seguire (“La arena cubre huellas / forma garabatos / en la playa / de tus vivencias”). Si affrontano ancora, in costante dialettica,  fisicità e spirito, polvere da sparo che cerca di uccidere l’aria del giorno; ma anche intimità e solitudine (“La luna se asoma / a la ventana / y quieta observa / los juegos del aire / una silueta en vilo / una mujer desarmada // los malabarismos de la soledad”). Si abbraccia in una toccante sinestesia questo costante intreccio di sfere sensoriali (“la melodía de tus ojos”). La sintesi perfetta, l’epilogo del viaggio, il presente e la parallela promessa di futuro è infine la Donna, dal cuore madre, dal cuore amante, dall’innata progettualità: “Una mujer lleva el corazón madre…”, Una mujer lleva el corazón amante…”, Una mujer escribe su mejor historia, / coloca su porvenir en el pico / de un ave migratoria / y busca en el viento / el ángulo perfecto”. Una donna, dal sapore fisico e sacro, di nome Zingonia. 

Giuliano Soria, "Alfredo Conde. I Miti della Terra Galega", Edizioni Nuova Cultura

Alfredo Conde (Allariz, Galizia, 1945) è uno dei più noti romanzieri galeghi nella millenaria cultura del nord-ovest della Spagna che possiede una vivace letteratura. In gioventù, è stato un marinaio e, successivamente, un politico. Narratore prolifico, ha pubblicato racconti, saggi, opere teatrali e importanti romanzi tra cui Breixo (Cátedra, 1981), Xa vai o Grifón no Vento (Galaxia, 1984, Alfaguara, 1987), Los otros días (Destino, 1991), Azul Cobalto (Edhasa, 2001), Memoria de soldado (Sotelo Blanco, 2002), Lukumí (Bruguera Editorial, 2006), Maria de las batallas (Galaxia, 2008) e Llovida del cielo (Edhasa, 2014). La fama di Alfredo Conde è legata al romanzo Xa vai o grifón no vento, vincitore dei premi Premio Blanco Amor (1984), Premio de la Crítica Literaria Española (1986), Premio Nacional de Literatura (1986) e Premio Grinzane Cavour (1990). In Italia, “Huesos de Santo” è stato tradotto con il titolo “Il Mistero del Santo sul Cammino di Santiago” da Giuliano Soria per l’editore Alberto Gaffi. “Il Grifone” è stato pubblicato da Editori Riuniti a cura di Giuseppe Tavani. Nel 2015, l’editore Sentieri Meridiani ha pubblicato “69 Poesie” a cura di Patricia Martelli Castaldi. 
In questo studio, Giuliano Soria affronta in un’analisi attenta i romanzi Breixo e El Griffón, sia da un punto di vista stilistico-strutturale che contenutistico-tematico, mettendo in risalto la galleguidad propria dell’autore, il disagio psicologico, l’erotismo e la sensualità che traspaiono nelle vicende relazionali dei personaggi.


Giuliano Soria, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2015


“L’ODORE DELLA POLVERE DA SPARO”


Oltre l’odore, nel grigio, una traccia di colore più acceso


di Davide Toffoli e Eleonora Mozziconi

L’odore della polvere da sparo” (Edizioni Spartaco, S. Maria Capua Vetere - CE 2015, collana Dissensi) è l’ultima fatica letteraria di Attilio Coco e si apre con una illuminante quanto preziosa citazione da “Utopia e disincanto” di Claudio Magris: “Il fiume della Storia trascina e sommerge le piccole storie individuali, l’onda dell’oblìo le cancella dalla memoria del mondo; scrivere significa anche camminare lungo il fiume, risalire la corrente, ripescare esistenze naufragate, ritrovare relitti impigliati alle rive e imbarcarli su una precaria Arca di Noè di carta”. Tuttavia, l’Arca predisposta dall’autore è, in questo caso, tutt’altro che precaria: ha difatti il raro pregio di regalare personaggi che restano indelebili nella nostra mente di lettori, anche dove potrebbero rischiare di apparire complessi ed intrisi di fortissima soggettività. Abbiamo a che fare con un intreccio delicatissimo di vite, di luoghi e di eventi, dove i singoli sembrano arrivare ad appartenersi, pur sfiorandosi soltanto. Siamo chiamati, assieme al narratore (a tessere le fila del racconto è infatti lo scrittore Pietro Mattei), a ricostruire la vita di Gianni Ceccante, affermato attore di teatro, rimettendo insieme le sue memorie e i suoi ricordi impressionistici legati agli incontri e agli eventi degli ultimi anni di Liceo a Potenza, accompagnandolo poi negli anni della svolta e dell’amore in una Capitale dalla bellezza mozzafiato, ma popolata di fantasmi e di sinistri spettri provenienti persino dal futuro, per terminare nella Torino della grande industria automobilistica e del boom economico a tutti i costi, dove comunque si riuscirà a respirare la possibilità di resistere ripartendo dall’anima più profonda e sincera dei singoli che torneranno ad incrociarsi nella quasi magica suggestione di un incontro, destinato ad eternarsi nella memoria. La forza ineluttabile del simbolo mi spinge a tirare in ballo quella foto del Grande Torino, stagione ’46-’47, più volte presente nei luoghi del libro, quasi a sottolineare il coesistere di tragedia e di sogni di rinascita  e di vittoria nella storia non solo dei singoli, ma di un intero Paese, sul quale incombe minacciosa e spietata una terribile malattia: il fascismo, il fascismo più profondo, il fascismo dell’anima che si adegua e rinuncia a ribellarsi e a reclamare la propria originalità e il proprio spazio. Il titolo potrebbe indurci a pensare ad un giallo, ad un noir, ad un libro di genere… “L’odore della polvere da sparo” è molto di più: è un’indagine umanissima nella Storia del nostro Paese e non solo, raccontata attraverso le quasi invisibili esistenze dei singoli (giovani, professori, ragazzi, professionisti, genitori…), evocata a volte in alcune delle sue pagine più crude ed oscure (i fatti di Potenza del 29 aprile 1947, quando la polizia spara sulla folla scesa in piazza per manifestare contro la fame e la disperazione che dilaga nelle campagne, la strage del Primo Maggio a Portella della Ginestra, i fatti di Piazza dello Statuto del 1962 a Torino, il ricordo della Guerra Civile Spagnola, l’evocazione quasi profetica delle tragiche vicende che animeranno l’Argentina di lì a poco…). Sono pagine che costringono a riflettere sulla scissione drammatica tra democrazia reale e democrazia formale, pagine che hanno il respiro anarchico e la sagacia critica del Professor Ludovico Marotta e di tutte le persone che animano quel “covo libertario” costituito dalla Libreria Marchesi. Un’opera che si porta dentro il dramma profondo di un Paese e di un popolo colpiti a morte ogniqualvolta sembrerebbero stringersi e farsi coraggio per reclamare il loro spazio e per prendere realmente coscienza di sé. Un libro attraversato però anche da Poesia e Profezia, soprattutto nei personaggi femminili che lo popolano e assolutamente mai da comprimari: l’elegante saggezza e l’orgogliosa fierezza della signora Silvana Marchesi, con il suo foulard di seta viola, lucida nel saper leggere oltre l’apparenza di uno sfogo dettato dalla frenesia delle circostanze e di cogliere il senso profondo delle parole; la toccante consapevolezza della madre di Gianni, poetica protagonista nel lasciarsi affascinare dalla lettura di Edgar Lee Masters e della sua coraggiosa “Antologia di Spoon River”,  profetica nel sottolineare i gesti consueti e sospesi del tempo di suo figlio Gianni che si volta verso le finestre chiuse dei palazzi e che cerca di cogliere con l’immaginazione l’unicità delle esistenze che si nascondono dietro di esse; la visionaria ed inquietante veggenza di Alejandra, “la Maga”, quasi ossessionata da Buenos Aires e da quella sua aurea mistica di Amore e Morte, dove il diffondersi della consueta malattia e la tragedia sembrano destinate a divenire ancora una volta un’esperienza collettiva. Queste figure femminili si stagliano letteralmente con sembianze da Sibilla… Sembrano quasi un respiro costante della Grande Madre che, qualsiasi cosa accada, resta sempre profondamente legata all’incedere ciclico ed ineluttabile della Vita e della Morte. Ma sono il ricordo e la memoria a costituire il cardine vero del libro: il persistere, prima di tutto, di quell’odore di polvere da sparo e di sangue che rimarrà sempre nelle narici e che, per dirla con le parole dello sfogo che il professor Marotta rivolge a don Carmelo, “sarà lo stesso odore che sentiremo ogni volta che si cercherà di cambiarlo veramente questo Paese”; la consapevole memoria di una scelta possibile, quella ad esempio delle prime comunità cristiane “nelle quali ogni individuo si prendeva cura dell’altro. Niente proprietà, nessun bisogno di controllo superiore. E libera scelta di adesione a un modo di vivere. Nessuna imposizione”. Ricorrendo ancora una volta alla forza immaginifica e sintetica del simbolo, l’anima di questa interessantissima proposta letteraria di Attilio Coco risiede tutta nei capelli di Camillo “di un grigio particolare sul quale sembra resistere ancora, pervicace e a dispetto di tutti gli anni passati, una traccia di colore più acceso”. Gianni e il suo amico d’infanzia “Diavolorosso” torneranno a condividere, ancora una volta, il loro sguardo vitale e critico sul modo circostante, ben oltre la drammatica scia di sangue che loro malgrado li ha sempre accompagnati, e a reclamare con maturata saggezza il proprio inestinguibile slancio libertario. Una lettura che non è davvero il caso di lasciarsi sfuggire e che merita occhi attenti e animo libero perché, oltre l’odore persistente della polvere da sparo, lascia in ogni caso percepire, anche nel grigio, “una traccia di colore più acceso”.

DAVIDE TOFFOLI e ELEONORA MOZZICONI

Attilio Coco



un mínimo de racionalidad un máximo de esperanza



José de María Romero Barea
un mínimo de racionalidad un máximo de esperanza
Poesía (qué si no) II
Selección





V

Mudarse para volver

Irse junto a otras formas
vegetales o animales que uno
(extrañamente) reconoce
como propias

Un río
por ejemplo

Una corriente de agua irreal
aunque no menos que la que corre
a unos metros de donde
escribo (y que puedo ver desde
mi ventana)

Subrayo el río

Describo una forma
sinuosa que quiere decir río
pero más arcaica
más parecida a un dibujo prehistórico
o al trazo de un niño



Pregunta del autor para las lectoras/es del blog de Quaderni:

¿Son racionalidad y esperanza dos términos necesariamente opuestos?



José de María Romero Barea (Córdoba, 1972) es profesor, poeta, narrador, traductor y periodista cultural. Autor de Poesía (qué si no), cuya primera sección el corazón el hueco, consta de la trilogía Resurrecciones (Asociación Cultura y Progreso, 2011), (mil novecientos setenta y) Dos (Ediciones en Huida, 2011) y Talismán (Editorial Anantes, 2012), del que la plaquette ridículo ciego feliz en mi sitio(Q Ave Press, 2012) es un adelanto.
Ediciones Alfar editará en 2015 su poemario un mínimo de racionalidad un máximo de esperanza.

Iolanda Beccaris - La Littorina di Nosserio



di Ivan Fassio


Iolanda Beccaris esordisce a 89 anni con un romanzo autobiografico, che alterna memorie di una vita di lavoro a liriche descrizioni di Sant’Anna e di Nosserio, piccole borgate di Costigliole d’Asti, paese del Basso Monferrato. Appassionata da sempre di botanica ed erboristeria, l’autrice ha scoperto la letteratura da autodidatta, in età relativamente tarda. Proprio grazie al suo interesse per i fiori e le piante, Iolanda frequenta negli anni Novanta i Giardini Hanbury a Ventimiglia, dove si teneva ogni anno un premio letterario. Qui Iolanda conosce Francesco Biamonti, Nico Orengo, Gérard de Cortanze, Amos Segala e Sandro Grappiolo. Tutti questi letterati appaiono come personaggi nella seconda parte del romanzo, sullo sfondo dei paesaggi liguri e di una Parigi dipinta vivacemente con spirito naïf. La città, scoperta dopo i sessant’anni a causa della pressante curiosità per l’arte e la poesia, chiude idealmente un percorso esistenziale sofferto, segnato da rinunce e sacrifici.
Il testo ripercorre con nostalgia coinvolgente i ricordi dell’infanzia contadina, soffermandosi su alcune usanze tipiche degli anni Trenta e sottolineando la mancata dedizione durante la giovane età nei confronti delle nascenti passioni per la lettura e lo studio, a causa dei primi impegni lavorativi in campagna. Liala ed Emilio Salgari sono gli autori dell’adolescenza, consumati voracemente all’ombra di un gelso, portando la mucca al pascolo. Le leggende sulle “masche” affascinano e turbano la giovane Iolanda, durante le serate passate a “vijé”, a chiacchierare e a narrare storie nelle stalle dei vicini di casa. L’educazione cristiana, spontaneamente acquisita dalla “dottrina” appresa nell’amata Chiesa di Sant’Anna, trova ben presto una più forte ragion d’essere nell’appoggio ai partigiani “bianchi” cattolici, tra i quali spicca da subito la figura di Carlino, futuro marito dell’autrice.
Gli anni Cinquanta e Sessanta sono vissuti all’insegna del duro lavoro nel magazzino di alimentari e prodotti enotecnici a conduzione familiare. Gli eventi fondamentali di questi anni sono la grande gioia per la nascita dei figli, Oreste e Giuseppe, il crescente sentimento di insoddisfazione e di inquietudine nell’opprimente clima di provincia, a continuo contatto con clienti e rappresentanti, e, infine, la scomparsa di Carlino, da anni malato di cuore. La littorina che collega Castagnole Lanze a Isola d’Asti e che ferma a Nosserio è l’unica via di fuga in questi anni, la prima strada che i figli percorrono, spinti dagli stessi genitori, per proseguire gli studi e scoprire il mondo.
La narrazione subisce una svolta tematica e stilistica a partire dall'abbandono dell’attività negli anni Ottanta e da un altro avvenimento fondamentale: la patente. Da questo momento, iniziano i racconti dei viaggi, delle scorribande tra Piemonte e Liguria alla ricerca di santuari e di scenari pittoreschi, dell’emancipazione dalla routine della vita paesana. Il dettato si fa mano a mano più fluente, la scrittura più limpida, fino alla descrizione del recupero delle passioni originarie: gli studi, le letture, la raccolta delle proprie testimonianze. Durante la vecchiaia, vissuta per scelta a Torino nella casa che guarda sulla Mole, Iolanda, prima contadina e commerciante, poi viaggiatrice, diventa finalmente scrittrice e fissa sulla pagina le proprie esperienze.
In appendice, alcuni gustosi capitoli e un “dizionarietto” illustrano al lettore le principali attività dell’autrice e fanno luce su alcune peculiarità del territorio e della tradizione piemontese.
Libro per tutti, “La Littorina di Nosserio” è un capolavoro di spontaneità, scritto con disinvoltura e chiarezza: un affascinante spaccato novecentesco del Piemonte con le sue caratteristiche di laboriosità, serietà e riservatezza.


Iolanda Beccaris
La Littorina di Nosserio
Prefazione di Giulia Lanciani
Introduzione di Gérard de Cortanze
Postfazione di Ivan Fassio
Collana: LEPRINTIMES
ISBN:9788899389017
data di pubblicazione: giugno 2015
Euro: 16.00




TRA UNA FINESTRA CHIUSA E UNA APERTA, UNA FAME DI PAROLE VERSO IL SILENZIO


(Javier Vicedo Alós, “FINESTRE SU NESSUNA PARTE”
con traduzione di Antonio Bux)
Eleonora Mozziconi
Davide Toffoli


Finestre su nessuna parte è una pubblicazione bilingue fresca e snella, del 2015, delle Edizioni Gattomerlino.
Javier Vicedo Alós (Castellón, 1985), giovane autore teatrale e poeta spagnolo, nelle sue liriche vigili e consapevoli, affacciate sul silenzio e sul vuoto sapienziali, tradotte con mestiere ed originalità da Antonio Bux (Foggia, 1982), ci regala una raccolta di indubbio spessore e di indiscutibile profondità emotiva. Ci accompagna verso il sottile piacere originario del silenzio, passando attraverso il lirismo quasi sacro della parola. Si muove tra una “finestra aperta”, quella della “memoria” di Jose Ángel Valente, e una “finestra chiusa”, quella del sogno e della potenzialità di Fernando Pessoa, animata da una coerenza di fondo ben riconoscibile già nella dedica: “A mis padres, por la oportunidad infinita”. Un viaggio ineluttabile (“El hambre de palabras que no acierto / derrumba y levanta mis días”) e impossibile (“Todos los signos apuntan al imposible”), che lascia trasparire l’ineffabilità della ricerca (“Que me calle la misma verdad que persigo”).

La prima sezione è aperta da “Homenaje vertical”, con dedica al poeta argentino Roberto Juarroz, e già vi si incontrano i suggestivi temi che caratterizzano la raccolta: la colpevolezza dell’uomo (“Echamos fuego al agua / y apagamos la transparencia. / Así quema el hombre la claridad del mundo”) e, soprattutto, la voce pesante del silenzio (“Se nace sin palabras”, oppure, “enmudece cualquier palabra”, e ancora, “Se aprende a callar con los años”). Il silenzio, come origine e punto d’arrivo, è una condizione armonica di equilibrio (“Y sin embargo, / aunque vivir sea enmudecer, / existe un placer original en el silencio / que justifica todos los silencios.”). La parola rischia di essere rottura, rumore funesto proprio sul punto di piombare sulla preda (“como si una rama / se partiera infinitamente / a punto de atropa al pajaro”). La parola è sempre già distanza. “Cantabile, ma non troppo”, un omaggio al giovane compositore José Pablo Polo, segue questa linea dell’indagine e dell’ascolto del silenzio come musica viva (“Yo soy música viva, / palpitación de sueño, / Un acorde imposible mirando al infinito.”) e indica possibili strategie (“Hay que ascultar el aire, / (…) / Pulsar la luz que espera / infinita en las teclas de la noche.”). Nella suggestiva “Fruto del silencio”, l’immagine quasi bipolare della sera: “popolano l’aria luci insicure / e ci dissangua il loro vacillare” ; “Pero aprendemos de la tarde / y abiertos a la duda somos calma”. E la subentrante pace di Luna ha un aspetto più che rassicurante (“Vibra alegre la cuerda del silencio”). La ricerca della parola che non violenti il silenzio è forse un passo impossibile (“Y callarse sería lo mas sábio”), perché bisogna essere umani o quantomeno sopportarlo perché “hasta en el torpe abismo de la voz / brotan algunos tallos de verdad. / Aunque sea la verdad simple / de ser y equivocarse.”.

La seconda sezione si apre con “Centro posible”, dove l’originalissima “Finestra” di Alós esce allo scoperto, come corpo, delicato confine tra istante e futuro (“Cuerpo, centro de todos los posibles”). Ecco che dare il nome alle cose significa vivere il proprio desiderio (“Solo el deseo da nombre a las cosas”). Un desiderio che, a tratti, non resiste a farsi corpo e a lasciarsi andare (“La ventana está abierta y nadie va a cerrarla. / Un viento nos conduce a todas partes.”). Il ritmo della carne è un vero salto verso il mondo, proprio sulle ali-guida del desiderio. Il dramma è dell’uomo che, lentamente, rinuncia a vivere, rassicurato da passi circolari di orbite esatte (“No quiete sobresaltos, sino órbitas exactas, / sentimientos atados a una inercia”), sceglie di farsi “rovina” oppure smette di sperare (“Yo soy mi propio reino devastado” “y vivir es cansarse de esperar”). Le mani dell’uomo sembrano troppo corte per raggiungere la vertigine di un sogno, le parole inadatte, le immagini sono di “stasi” senza progetto (“pero nada acontece mientras tanto, / únicamente unas palomas / picotean en la barranda / los pedazos de tedio de la tarde: / los restos de tu vida sin proyecto”). Il rischio che incombe è la solitudine (“Nunca estuvimos solos como ahora. // La compañía es el calor de una esperanza, / tierra de una promesa que el tiempo inunda”).

La quarta sezione getta lo sguardo subito oltre la finestra, nel dubbio, nel nulla, anche se “Mirando nadas se construye un hombre”; affronta il pensiero della perdita. Dare luce alle cose sembra quasi bruciarle, in uno scontro perso in partenza tra finitezza e infinitezza (“todo fue bordear la luz infinita”; “Tú has sido la luz en las horas, / la ardiente aguja en los objectos” (…) “Por fin en tu consumirte has sabido la llama. / A ti no será en vano la noche”). È l’uomo che si confronta con la sua ultima esperienza, quel suo ultimo gradino della parola che si fa pietra (“La eternidad es nuestra por un momento, / lo demás es el cansancio de las estatuas. // Un último escalón hace más alta la vida”). Ed è qui che la “notte” dell’uomo acquista una splendida consapevolezza, quasi adeguandosi al ritmo ineluttabile del “panta rei”, nella naturalissima e suggestiva “Marchando”, dedicata a Guyeda y Alejandro:

Florece noche, fruto necesario.
Todo es marchar.
¿Qué protesta en la luz
que cae con nuestro peso?
Cayendo se prendieron nuestros ojos.
Todo es marchar.
Aquí la estela que devoras, noche.
Florece, yo seré raíz del tiempo.

L’obiettivo, per Alós, è essere, per un solo istante, “porción silenciosa del mundo”, voce più lontana dalla voce. La quinta sezione è tutta, infine, nella sua “Coda abierta”, dove qualcuno ancora s’illude di mettere il proprio nome sul silenzio, come principio e come meta, come frutto inseguito ormai senza parole (“Pero donde el final hay un principio. / Se fueron todas las palabras”). Una firma come marchio e garanzia (“Alguien debe firmar este silencio”): non solo quella lucidissima di Javier Vicedo Alós, ma anche quella di un poeta-traduttore come Antonio Bux, che riesce, quasi mimetico, a sintonizzarsi sulle armonie e dis-armonie del testo, “tra-ducendo” senza tradire.

FRAMMENTI PER UNA PIÙ MITE RIVOLUZIONE


(Antonio Bux “23 – FRAGMENTOS DE ALGUIEN”)

Eleonora Mozziconi
Davide Toffoli


23 – Fragmentos de alguien è una pubblicazione bilingue del 2014, della Colección Illuminaciones delle Ediciones Ruinas Circulares di Buenos Aires, dedicata ad uno dei più geniali poeti del secondo Novecento spagnolo, Leopoldo María Panero, spentosi nell’ospedale psichiatrico di Gran Canaria il 5 marzo del 2014, alle ore 23. In questa opera Bux ha scelto singolarmente di comporre i propri testi prima in Castigliano e di tradurli, solo successivamente, in Italiano. Un volume intenso e dilaniante già nella dedica: “(…) Como en el hundir azul de una piedra sobre el lecho marino, espero que se quede de estas poesías el estruendo, aquel agujero en el agua que no lleva hacia ninguna superficie, pero que rechaza en otro lugar la palabra, allí donde no se puede ahogar, pero tampoco remontar.”. Una sfida coraggiosa al gigantesco nulla, con sembianze spaventose da mostro, nella disarmante consapevolezza di essere a due passi dal cuore del labirinto.

Poesia come sfida, quindi, ma anche come enigma; si pensi alla citazione evocativa in apertura: “Y sabed que vuestro pecado os alcanzará” (Números 32:23). Poesia come arte di affrontare il mistero e l’abisso, ma anche come esperienza, come “Big Bang in miniatura che ripropone sul foglio l’origine del mondo. Poesia come “occasione” e nutrimento del pensiero, come ci suggerisce finemente l’introduzione di Valerio Nardoni. Una lettura, per nulla facile, che si impone però con una serie di elementi che sembrano caratterizzarla e ci accompagnano in questa sfida all’abisso. Tra tutti, a nostro avviso, il più suggestivo e toccante è quello del “vetro”, contraddistinto da fragilità apparente e pericolosa trasparenza, capace di aprire scenari fisici e non solo mentali: “Cuando el día quebrado rompe / su costado hacia el abismo / no quedan ya sombras cercanas, / quizá fragmentos de alguien, / perfiles hundiéndose en el humo / que sobrevive a lo infinito del vidrio.”, oppure “Si no dentro de ti / buscar otra imagen / de alguna forma / más allá del vidrio / y fundir el alma / con el vértigo de ser / dividido por un confín / – una huella de la nada – / así que todo sea todo / y los rostros algo menos.”, e ancora “Siempre hay un vidrio que, antes / del vidrio, ya es proyección futura. / Pero siempre también hay un vidrio / que es, después del vidrio, obstáculo lente / de un presente fragmento.”.

All’apparenza legato a quello del “vetro”, anche l’intrigante tema dello “specchio” (“El espejo de la tierra / no es el hombre / sino su muerte / juntando dos invisibles / vacíos aproximativos.”; oppure “Vivir la tierra con adelanto / significa expulsar cada llanto / hacia el cielo, tan sólo mirando / el espejo común con el ojo de adentro.”, ma anche “Leer como si este hilo / que une las palabras / fuera un espejo blando / que no refleja una imagen / sino la parte invisible,” o “Como cuando / para asomarse más allá del espejo, / se fija un punto preciso del vacío”), che sembra già preludere a quell’unica fuga possibile che consiste nel guardarsi dentro (“Volviendo adentro / la única fuga / una habitación olvidada.”) per arrivare a “partorire poesia” anche dalla morte.

Il gioco preferito è quello del “paradosso”, della apparente “contraddizione”, del “ribaltamento”,
sempre di indubbia efficacia e suggestione: “escribir sobre un papel negro / con el dedo blanco de la muerte, / la palabra hundida, el último silencio.”. Ci sono molti “frammenti” nella poesia di Bux, ma come per una scelta quasi programmatica (“Tendría el hombre que pensar / en puntos, fragmentos de nada / frente al mundo, y no plantar / raíces de ocaso, hojas de azar / que trasmiten en el viento / el último aliento, su inútil mirar.”) e la “parola” stessa sembra frammentarsi: in parola-pietra (“mientras la palabra es una roca / sin fundamento, / y tú eres muro quemado / que brota como un incendio”), in parola-rospo cui pare precluso il volo (“tan sólo sabes la palabra / pero la palabra sólo es un sapo / el sapo escupido cada día / por tu boca sin salto;”), in parola-laicamente sacra capace di trasformarsi in scrittura (“El lápiz es una sombra / extendida de la mano / que dibujando calabra / rompe sus huesos, y ofrece / comida al pensamento / rascándole el alma, / como unas nueces partidas / en millones de fragmentos. / Escribir es la última cena, / el vino amargo echado / sobre la mesa blanca de la hoja.”).

I versi tendono a descrivere, e lo fanno sempre in maniera  minuziosa, la “trasformazione”, il “deperimento”, la “mostrificazione” (“Saber Dios y ver / a este Jano bifronte / susurrando belleza / y amor y muerte / en la oreja invisible / de una verdad anterior; / así el hombre resurge / no ya como ser, sino monstruo / transparente en la espera / de mustiarse por la tierra.”); ma, tra le tematiche più importanti, non si può dimenticare quella del “silenzio” che rappresenta sempre, a nostro dire, alcuni dei momenti più alti: “cuando ya no de carne la lengua quema / – en el silencio de una tierra / estéril abisma – / como gusano en busca de la luz salvadora / transparente al aire de las cosas vanas,”; oppure “Mientras el pez huidizo / de la palabra no remonta / el mar quieto, se descubre / en la apnea del silencio.”; e ancora: Ciega el eterno esplendor, / muere en el torbellino del silencio / y cristalizada yace en el fondo, / en el recuerdo de un instante, / aquella poesía venida / a la luz desde la muerte.”.

È un percorso narrativo assolutamente non lineare quello che ci accompagna, il più delle volte spiazzante (“Qué lindo es vivir / en un sótano. / Puedo soñar con el sol / penetrar por los ventanales”), incisivo e schietto quasi ai limiti del dogmatismo (“Sin embargo prefiero este infierno / al invierno de vuestras sonrisas.”), in altri casi capace di costringerci quasi a ritroso (“Esta ciudad es una película quemada / por un director jubilado, / que rebobina lenta en el tiempo, / y donde mudos actores / recitan su precipitar / en el objetivo roto de la historia.”; ma anche “la ciudad se vuelva de un color ochocientos / y de tu vaso lleno de ajenjo / remonte hacia Baudelaire o hacia Verlaine”). 


Evocative e simbiotiche, le liriche che chiamano esplicitamente in causa la scomparsa dell’ultimo dei “maledetti”, Leopoldo María Panero: “he leído que el más grande poeta de la tierra / Leopoldo María de casi 66 años / en la incumbencia de convertirse en pleno / número de su señor ha decidido / dejar sus queridos bastardos vecinos / con un puñado de mosquitos en la mano caída.”; versi tra i quali il poeta defunto si aggira come uno spettro irriverente (“porque hoy las tinieblas les hacen ilusión a la tierra / mientras el fantasma Panero vaga riéndose / y meando por el mundo sus paredes distintas.”); versi che deflagrano proprio dove sembra aprirsi la ferita (“Estoy llorando el fantasma / de un hombre demasiado sobrevivido / por haber estado nunca. / Esa lápida blanca / que usaste como hoja / ya te invoca y reclama.”). Ci piace sottolineare un’interessante predisposizione di Bux all’incipit destabilizzante (“Hay un gigante tras la página, / un monstruo que crece con exceso / cuando cada pensamiento muere / apagando su línea sobre el punto.”) che ha il potere di trascinarti “nel cuore della questione”.

E’ un universo multiforme quello che si incontra nelle pagine di “23 – Fragmentos de alguien”, che oscilla tra semplice complicità (“A veces pienso, y todavía estamos vivos: / nosotros que vivimos el mismo silencio, ahora;”) e accenni dal sapore vagamente esoterico (“Del regazo de la pirámide / empieza el número / con abrir el calendario, / brotando el cromosoma / varón de vanadio yendo / abajo de un hilo al otro, / donde del biorritmo del sentido / se consigue la divina matemática / del hombre que, por contra, / no es uno, sino un doble / en la posesión trina de todo,”). L’unica possibilità reale sembra quella di dimenticare: “Por lo tanto / olvidar es la palabra - la única / respuesta significativa - la hipótesis definitiva.”.

L’approdo del volume di Bux si riconosce e si scopre, infine, proprio nell’atto di solcare l’abisso, col consueto coraggio che ne contraddistingue il viaggio, in una sorta di ritorno all’origine, verso una più mite rivoluzione: “Cuando un cuerpo surca / el abismo cambia / tendencia al origen, / una vez vuelto / como el río en su propia / nostalgia opuesta, / dónde ya no es / proximidad traicionada / el renacimiento, / sino sólo más quieta / revolución.”.