Iolanda Beccaris - La Littorina di Nosserio



di Ivan Fassio


Iolanda Beccaris esordisce a 89 anni con un romanzo autobiografico, che alterna memorie di una vita di lavoro a liriche descrizioni di Sant’Anna e di Nosserio, piccole borgate di Costigliole d’Asti, paese del Basso Monferrato. Appassionata da sempre di botanica ed erboristeria, l’autrice ha scoperto la letteratura da autodidatta, in età relativamente tarda. Proprio grazie al suo interesse per i fiori e le piante, Iolanda frequenta negli anni Novanta i Giardini Hanbury a Ventimiglia, dove si teneva ogni anno un premio letterario. Qui Iolanda conosce Francesco Biamonti, Nico Orengo, Gérard de Cortanze, Amos Segala e Sandro Grappiolo. Tutti questi letterati appaiono come personaggi nella seconda parte del romanzo, sullo sfondo dei paesaggi liguri e di una Parigi dipinta vivacemente con spirito naïf. La città, scoperta dopo i sessant’anni a causa della pressante curiosità per l’arte e la poesia, chiude idealmente un percorso esistenziale sofferto, segnato da rinunce e sacrifici.
Il testo ripercorre con nostalgia coinvolgente i ricordi dell’infanzia contadina, soffermandosi su alcune usanze tipiche degli anni Trenta e sottolineando la mancata dedizione durante la giovane età nei confronti delle nascenti passioni per la lettura e lo studio, a causa dei primi impegni lavorativi in campagna. Liala ed Emilio Salgari sono gli autori dell’adolescenza, consumati voracemente all’ombra di un gelso, portando la mucca al pascolo. Le leggende sulle “masche” affascinano e turbano la giovane Iolanda, durante le serate passate a “vijé”, a chiacchierare e a narrare storie nelle stalle dei vicini di casa. L’educazione cristiana, spontaneamente acquisita dalla “dottrina” appresa nell’amata Chiesa di Sant’Anna, trova ben presto una più forte ragion d’essere nell’appoggio ai partigiani “bianchi” cattolici, tra i quali spicca da subito la figura di Carlino, futuro marito dell’autrice.
Gli anni Cinquanta e Sessanta sono vissuti all’insegna del duro lavoro nel magazzino di alimentari e prodotti enotecnici a conduzione familiare. Gli eventi fondamentali di questi anni sono la grande gioia per la nascita dei figli, Oreste e Giuseppe, il crescente sentimento di insoddisfazione e di inquietudine nell’opprimente clima di provincia, a continuo contatto con clienti e rappresentanti, e, infine, la scomparsa di Carlino, da anni malato di cuore. La littorina che collega Castagnole Lanze a Isola d’Asti e che ferma a Nosserio è l’unica via di fuga in questi anni, la prima strada che i figli percorrono, spinti dagli stessi genitori, per proseguire gli studi e scoprire il mondo.
La narrazione subisce una svolta tematica e stilistica a partire dall'abbandono dell’attività negli anni Ottanta e da un altro avvenimento fondamentale: la patente. Da questo momento, iniziano i racconti dei viaggi, delle scorribande tra Piemonte e Liguria alla ricerca di santuari e di scenari pittoreschi, dell’emancipazione dalla routine della vita paesana. Il dettato si fa mano a mano più fluente, la scrittura più limpida, fino alla descrizione del recupero delle passioni originarie: gli studi, le letture, la raccolta delle proprie testimonianze. Durante la vecchiaia, vissuta per scelta a Torino nella casa che guarda sulla Mole, Iolanda, prima contadina e commerciante, poi viaggiatrice, diventa finalmente scrittrice e fissa sulla pagina le proprie esperienze.
In appendice, alcuni gustosi capitoli e un “dizionarietto” illustrano al lettore le principali attività dell’autrice e fanno luce su alcune peculiarità del territorio e della tradizione piemontese.
Libro per tutti, “La Littorina di Nosserio” è un capolavoro di spontaneità, scritto con disinvoltura e chiarezza: un affascinante spaccato novecentesco del Piemonte con le sue caratteristiche di laboriosità, serietà e riservatezza.


Iolanda Beccaris
La Littorina di Nosserio
Prefazione di Giulia Lanciani
Introduzione di Gérard de Cortanze
Postfazione di Ivan Fassio
Collana: LEPRINTIMES
ISBN:9788899389017
data di pubblicazione: giugno 2015
Euro: 16.00




TRA UNA FINESTRA CHIUSA E UNA APERTA, UNA FAME DI PAROLE VERSO IL SILENZIO


(Javier Vicedo Alós, “FINESTRE SU NESSUNA PARTE”
con traduzione di Antonio Bux)
Eleonora Mozziconi
Davide Toffoli


Finestre su nessuna parte è una pubblicazione bilingue fresca e snella, del 2015, delle Edizioni Gattomerlino.
Javier Vicedo Alós (Castellón, 1985), giovane autore teatrale e poeta spagnolo, nelle sue liriche vigili e consapevoli, affacciate sul silenzio e sul vuoto sapienziali, tradotte con mestiere ed originalità da Antonio Bux (Foggia, 1982), ci regala una raccolta di indubbio spessore e di indiscutibile profondità emotiva. Ci accompagna verso il sottile piacere originario del silenzio, passando attraverso il lirismo quasi sacro della parola. Si muove tra una “finestra aperta”, quella della “memoria” di Jose Ángel Valente, e una “finestra chiusa”, quella del sogno e della potenzialità di Fernando Pessoa, animata da una coerenza di fondo ben riconoscibile già nella dedica: “A mis padres, por la oportunidad infinita”. Un viaggio ineluttabile (“El hambre de palabras que no acierto / derrumba y levanta mis días”) e impossibile (“Todos los signos apuntan al imposible”), che lascia trasparire l’ineffabilità della ricerca (“Que me calle la misma verdad que persigo”).

La prima sezione è aperta da “Homenaje vertical”, con dedica al poeta argentino Roberto Juarroz, e già vi si incontrano i suggestivi temi che caratterizzano la raccolta: la colpevolezza dell’uomo (“Echamos fuego al agua / y apagamos la transparencia. / Así quema el hombre la claridad del mundo”) e, soprattutto, la voce pesante del silenzio (“Se nace sin palabras”, oppure, “enmudece cualquier palabra”, e ancora, “Se aprende a callar con los años”). Il silenzio, come origine e punto d’arrivo, è una condizione armonica di equilibrio (“Y sin embargo, / aunque vivir sea enmudecer, / existe un placer original en el silencio / que justifica todos los silencios.”). La parola rischia di essere rottura, rumore funesto proprio sul punto di piombare sulla preda (“como si una rama / se partiera infinitamente / a punto de atropa al pajaro”). La parola è sempre già distanza. “Cantabile, ma non troppo”, un omaggio al giovane compositore José Pablo Polo, segue questa linea dell’indagine e dell’ascolto del silenzio come musica viva (“Yo soy música viva, / palpitación de sueño, / Un acorde imposible mirando al infinito.”) e indica possibili strategie (“Hay que ascultar el aire, / (…) / Pulsar la luz que espera / infinita en las teclas de la noche.”). Nella suggestiva “Fruto del silencio”, l’immagine quasi bipolare della sera: “popolano l’aria luci insicure / e ci dissangua il loro vacillare” ; “Pero aprendemos de la tarde / y abiertos a la duda somos calma”. E la subentrante pace di Luna ha un aspetto più che rassicurante (“Vibra alegre la cuerda del silencio”). La ricerca della parola che non violenti il silenzio è forse un passo impossibile (“Y callarse sería lo mas sábio”), perché bisogna essere umani o quantomeno sopportarlo perché “hasta en el torpe abismo de la voz / brotan algunos tallos de verdad. / Aunque sea la verdad simple / de ser y equivocarse.”.

La seconda sezione si apre con “Centro posible”, dove l’originalissima “Finestra” di Alós esce allo scoperto, come corpo, delicato confine tra istante e futuro (“Cuerpo, centro de todos los posibles”). Ecco che dare il nome alle cose significa vivere il proprio desiderio (“Solo el deseo da nombre a las cosas”). Un desiderio che, a tratti, non resiste a farsi corpo e a lasciarsi andare (“La ventana está abierta y nadie va a cerrarla. / Un viento nos conduce a todas partes.”). Il ritmo della carne è un vero salto verso il mondo, proprio sulle ali-guida del desiderio. Il dramma è dell’uomo che, lentamente, rinuncia a vivere, rassicurato da passi circolari di orbite esatte (“No quiete sobresaltos, sino órbitas exactas, / sentimientos atados a una inercia”), sceglie di farsi “rovina” oppure smette di sperare (“Yo soy mi propio reino devastado” “y vivir es cansarse de esperar”). Le mani dell’uomo sembrano troppo corte per raggiungere la vertigine di un sogno, le parole inadatte, le immagini sono di “stasi” senza progetto (“pero nada acontece mientras tanto, / únicamente unas palomas / picotean en la barranda / los pedazos de tedio de la tarde: / los restos de tu vida sin proyecto”). Il rischio che incombe è la solitudine (“Nunca estuvimos solos como ahora. // La compañía es el calor de una esperanza, / tierra de una promesa que el tiempo inunda”).

La quarta sezione getta lo sguardo subito oltre la finestra, nel dubbio, nel nulla, anche se “Mirando nadas se construye un hombre”; affronta il pensiero della perdita. Dare luce alle cose sembra quasi bruciarle, in uno scontro perso in partenza tra finitezza e infinitezza (“todo fue bordear la luz infinita”; “Tú has sido la luz en las horas, / la ardiente aguja en los objectos” (…) “Por fin en tu consumirte has sabido la llama. / A ti no será en vano la noche”). È l’uomo che si confronta con la sua ultima esperienza, quel suo ultimo gradino della parola che si fa pietra (“La eternidad es nuestra por un momento, / lo demás es el cansancio de las estatuas. // Un último escalón hace más alta la vida”). Ed è qui che la “notte” dell’uomo acquista una splendida consapevolezza, quasi adeguandosi al ritmo ineluttabile del “panta rei”, nella naturalissima e suggestiva “Marchando”, dedicata a Guyeda y Alejandro:

Florece noche, fruto necesario.
Todo es marchar.
¿Qué protesta en la luz
que cae con nuestro peso?
Cayendo se prendieron nuestros ojos.
Todo es marchar.
Aquí la estela que devoras, noche.
Florece, yo seré raíz del tiempo.

L’obiettivo, per Alós, è essere, per un solo istante, “porción silenciosa del mundo”, voce più lontana dalla voce. La quinta sezione è tutta, infine, nella sua “Coda abierta”, dove qualcuno ancora s’illude di mettere il proprio nome sul silenzio, come principio e come meta, come frutto inseguito ormai senza parole (“Pero donde el final hay un principio. / Se fueron todas las palabras”). Una firma come marchio e garanzia (“Alguien debe firmar este silencio”): non solo quella lucidissima di Javier Vicedo Alós, ma anche quella di un poeta-traduttore come Antonio Bux, che riesce, quasi mimetico, a sintonizzarsi sulle armonie e dis-armonie del testo, “tra-ducendo” senza tradire.